Psicologa Clinica e dello Sviluppo - Psicoterapeuta Sistemico-Relazionale

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Bambini iperattivi “curati” con la dieta

E se la sindrome da deficit dell’attenzione e da iperattività (ADHD, secondo la sigla anglosassone) fosse legata a un’allergia o a un’intolleranza alimentare? Partendo da questo presupposto, un gruppo di ricercatori olandesi ha messo “a dieta ristretta” un gruppo di bambini (cinquanta in totale, dai 4 agli 8 anni), affetti dalla sindrome, per 5 settimane e ha confrontato gli effetti di quest’ultima con quelli di una alimentazione normale ed equilibrata, seguita da altrettanti bambini iperattivi.

Una dieta ristretta comprende pochissimi alimenti: carni (non tutte), riso, alcuni vegetali e qualche frutto e non è facile da seguire, ma di fatto elimina tutti quei cibi che possono potenzialmente essere allergizzanti. Alla fine del periodo di osservazione, i sintomi della sindrome (scarsa capacità di concentrazione, difficoltà a svolgere i compiti, iperattività motoria, problemi relazionali, aggressività, soltanto per citarne alcuni) risultavano molto attenuati nei bambini tenuti a dieta rispetto agli altri. I ricercatori, che hanno pubblicato le loro osservazioni sulla rivista Lancet, hanno poi continuato lo studio introducendo via via, nella dieta dei bambini che avevano risposto positivamente alle restrizioni, alcuni alimenti, nel tentativo di individuare quelli che potevano di nuovo peggiorare la sintomatologia (per eliminarli definitivamente) e quelli che, invece, potevano essere tollerati. Secondo i ricercatori olandesi, l’approccio terapeutico alla sindrome da iperattività dovrebbe sempre prendere in considerazione un intervento dietetico, ma scoraggiano l’uso di test basati sul dosaggio degli anticorpi (IgG nel sangue) per individuare i cibi allergizzanti.

Gli esperti avvertono anche che una dieta di restrizione non deve mai superare le 5 settimane e deve sempre essere attuata con la supervisione di un medico: potrebbe, infatti, interferire con i processi di crescita. Se i bambini presentano un miglioramento dei sintomi quando sono a dieta ristretta, vale la pena di continuare, introducendo nuovi cibi uno per volta, se invece non rispondono, allora è opportuno prendere in considerazione altre terapie di tipo psicologico o farmacologico (tenendo presente che l’uso dei farmaci per la cura di questo disturbo è oggetto di molte critiche ed è per questo che approcci alternativi alla cura, come per esempio i suggerimenti dietetici, se validi, sono i benvenuti).

Fonte:

www.corriere.it

L’obesità restringe il cervello

“Mens sana in corpore sano” dicevano i latini. Una nuova conferma all’antico proverbio arriva dagli Stati Uniti. Una ricerca pubblicata su Brain Research rileva che i chili di troppo incidono negativamente sulle dimensioni del cervello, alterando il funzionamento di quelle zone che “governano” il comportamento alimentare. Secondo gli studiosi della New York University School of Medicine (Usa), l’obesità oltre ad essere legata a un aumento del rischio di diabete di tipo 2, una malattia che già di per sé compromette le funzioni cognitive, determina anche un “malfunzionamento” che potrebbe portare le persone a mangiare sempre di più nel tempo.

Per verificare l’impatto dei chili di troppo sulla struttura cerebrale, il team di Antony Convit ha esaminato 63 persone. In particolare, gli studiosi hanno scansionato il cervello di 44 pazienti obesi grazie a una risonanza magnetica funzionale, e poi hanno confrontato i risultati ottenuti con quelli di 19 ‘magri’ della stessa età e livello di istruzione.

Ne è emerso che gli individui obesi hanno più acqua nell’amigdala e la corteccia orbito-frontale più piccola, e che i neuroni di queste aree o sono di meno o, comunque, risultano “come rattrappiti”. In pratica i chili di troppo influenzano negativamente l’attività e le dimensioni di quelle parti del cervello, amigdala e corteccia orbito-frontale appunto, che controllano il comportamento alimentare. Ciò significa, dice Convit, che queste alterazioni della struttura cerebrale (conseguenza dell’infiammazione provocata nell’organismo dall’obesità) possono determinare sia una minore funzionalità cognitiva ma, soprattutto, possono causare disturbi alimentari.

“Questo è il primo studio – dice Convit – che dimostra che l’infiammazione legata all’adiposità riduce l’integrità di alcune delle strutture cerebrali coinvolte nei meccanismi di sazietà e di ricompensa. Dalla nostra sperimentazione emerge quindi che i chili di troppo innescano cambiamenti neurali che aumentano il rischio di mangiare sempre di più in futuro”.

In un certo senso, commenta il ricercatore, lo studio avvalora la “teoria dell’obesità”, secondo cui i percorsi di ricompensa nel cervello delle persone in sovrappeso diventano meno sensibili quando aumentano i chili di troppo. Pubblicata nell’ottobre del 2010 su The Journal of Neuroscience, questa ricerca ha scoperto che il comportamento delle persone obese è simile a quello dei tossicodipendenti: per trarre piacere dall’assunzione della sostanza hanno bisogno di dosi sempre maggiori. Secondo lo studio, tutto dipende dai recettori del piacere che sono più deboli nelle persone oversize. Ciò innesca un vero e proprio circolo vizioso: tanto più aumenta la quantità di cibo ingerito tanto più si indebolisce la risposta dei ricettori del piacere e cresce la voglia di mangiare.

“Bisogna sapere – dice il coordinatore della ricerca, Eric Stice – che il cibo rilascia dopamine, gli ormoni del piacere. Ma dal nostro studio emerge che i soggetti obesi hanno, rispetto ai magri, un minor numero di ricettori D2, quelli della dopamine. Per cui gli obesi per compensare tale carenza, tendono a esagerare a tavola”. Insomma è come se si spostasse sempre più in là la soglia della fame, ciò spiegherebbe perché l’obesità è un disagio cronico.

Fonte:

www.repubblica.it

La dipendenza da videogiochi può causare depressione e ansia

Per i giovanissimi sempre più videogame-dipendenti il rischio è di soffrire di depressione, ansia e fobia sociale, oltre che di andare male a scuola. Lo dice Douglas Gentile della Iowa State University, dopo aver monitorato per due anni, insieme a cinque ricercatori di Singapore e Hong Kong, lo stato di salute di 3mila ragazzini: per l’8-10% sono risultati giocatori patologici. I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Pediatrics, il giornale della American Academy of Pediatrics.

Gli esperti hanno usato la “Bibbia degli psichiatri”, ovvero il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders dell’American Psychiatric Association, per stabilire quanti ragazzini nel campione avessero i connotati del giocatore patologico e monitorato il loro stato di salute psichica per due anni. È emerso che i ragazzini restano incollati ai videogiochi mediamente per 20 ore a settimana e che quelli dipendenti sono più inclini a sviluppare depressione, ansia e fobia sociale.

Secondo Gentile questi disturbi sono una diretta conseguenza della dipendenza da console e non una caratteristica insita nel giocatore. Depressione e ansia sarebbero dunque conseguenze della dipendenza e la loro gravità direttamente proporzionale al grado di “subordinazione”.

Fonte:

www.corriere.it

Sul disturbo borderline di personalità

La prima definizione del disturbo borderline di personalità (d’ora in poi BPD) come categoria psichiatrica, con una propria definizione e propri criteri diagnostici, compare nel DSM-III. La complessità delle numerose manifestazioni sintomatologiche rende particolarmente difficile una differenziazione sia da altre categorie diagnostiche, all’interno dello stesso Asse II, sia dalla depressione nevrotica e dalla psicosi (patologie diagnosticate nell’Asse I del DSM-IV).

Diversi sono i modelli teorici che hanno cercato di spiegare il nucleo eziopatogenetico del BPD. Tali teorie vanno dall’ambito psicoanalitico a quello cognitivo-comportamentale e cognitivo-evoluzionista. Kernberg ipotizza, alla base del BPD, un conflitto tra pulsioni libidiche e aggressive che, insorto in epoca pre-edipica, viene affrontato con il primitivo meccanismo di difesa della scissione. Il massiccio utilizzo della scissione, impedendo l’integrazione degli aspetti buoni e cattivi dell’oggetto, spiega, secondo Kernberg, molti dei sintomi BPD. Fonagy sottolinea il ruolo di fattore di rischio assunto dal deficit metacognitivo nell’eziopatogenesi del BPD. Tale deficit trae origine da una relazione infantile con una figura di attaccamento traumatizzante e dalla contemporanea mancanza della sicurezza e del conforto necessari per arginare gli effetti del trauma. Paris sostiene che sia fattori biologici (legati ad aspetti temperamentali), sia fattori psicologici (riconducibili a eventi traumatici o a esperienze di trascuratezza e stili abnormi di accudimento), sia fattori sociali (dovuti a una disgregazione dei valori tradizionali) intervengono, nelle loro varie combinazioni, nel determinare una vulnerabilità per lo sviluppo del BPD. Beck e collaboratori riconoscono alla base del BPD lo sviluppo di credenze disfunzionali su di sé e sul mondo, che generano un dilemma insolubile tra la convinzione di aver bisogno degli altri, in quanto si è deboli e incapaci di affrontare la realtà da soli, e l’impossibilità di poter fare affidamento su qualcuno in un mondo pericoloso e ostile. Linehan afferma che il nucleo del BPD risiede in un grave deficit del sistema di regolazione delle emozioni, che ha origine dalla combinazione di variabili legate al temperamento e variabili ambientali, legate all’apprendimento sociale del valore e del significato delle emozioni. Tale deficit spiega, secondo l’autrice, l’emotività instabile e intensa dei pazienti borderline. Liotti propone, invece, un’ipotesi integrativa che riesce a conciliare gli aspetti della scissione sottolineati da Kernberg – riconoscibili nelle rappresentazioni contraddittorie di sé e degli altri – con la difficoltà nella gestione e nell’espressione delle emozioni evidenziata dalla Linehan, attraverso il processo della disorganizzazione dell’attaccamento.

Attraverso la Psicoterapia Focalizzata sul Transfert (TFP), elaborata da Otto Kernberg, il terapeuta si pone l’obiettivo di aiutare il paziente, attraverso il riconoscimento e l’elaborazione di meccanismi di difesa primitivi, a trasformare le relazioni oggettuali parziali, a costruire difese più evolute, al fine di attivare un processo di integrazione di parti scisse del Sé e dell’oggetto, affinché possa strutturarsi una percezione più realistica degli oggetti totali (integrazione di oggetto buono e oggetto cattivo). La TFP, basandosi sull’interpretazione precoce delle difese, rafforza l’Io, facilitando anche l’interpretazione del transfert che, in questo tipo di intervento, viene utilizzato quando si riesce a stabilire un buon rapporto paziente-terapeuta. Nell’approccio proposto da Fonagy, in cui si ipotizza che la rabbia e gli impulsi negativi e aggressivi espressi dal paziente siano riconducibili a frustrazioni vissute realmente nei primi rapporti, attraverso una ricostruzione coerente di esperienze interpersonali, il paziente modifica i modelli operativi interni, attivando dei processi esperenziali correttivi delle esperienze traumatiche vissute nell’infanzia.

La Terapia Dialettico-Comportamentale, sviluppata da Marsha Linehan attraverso l’esperienza clinica con pazienti borderline caratterizzati da gesti suicidari nella loro storia, trae i suoi principi teorici nel modello biosociale della personalità, la cui premessa fondamentale è che la principale alterazione, nel BPD, sia una disfunzione nella regolazione delle emozioni, basata sia su una predisposizione biologica sia su esperienze di vita non favorevoli al riconoscimento e alla modulazione delle emozioni espresse. Tale grave deficit spiega sintomi quali: le rapide oscillazioni dell’umore, la rabbia immotivata e acuta, l’intensità caotica delle relazioni intime, l’incapacità di controllare gli impulsi autolesivi. Sulla base di tali premesse teoriche e in virtù della grande difficoltà nel gestire in terapia i pazienti borderline e dell’alto tasso di drop-out, la Linehan postula un piano di trattamento che si basa sulle seguenti considerazioni: creare un ambiente in grado di validare le emozioni del paziente, affinché egli impari a riconoscerne il significato e a gestirne l’espressione; insegnare al paziente strategie di problem-solving e abilità psicosociali che permettano di affrontare le situazioni di disagio in maniera più adattiva; trovare un equilibrio tra le strategie volte all’accettazione e quelle dirette al cambiamento; tenere ben presente la gerarchia di obiettivi terapeutici da rispettare, prima tra tutti quelli che minacciano la vita del paziente; far assumere a quest’ultimo un ruolo da protagonista, all’interno del proprio percorso di cambiamento, che gli restituisca un senso di autoefficacia e di valore personale; prevedere un setting di gruppo, accanto alla psicoterapia individuale, di tipo psicoeducativo, in modo da tutelare la relazione terapeutica che, in genere, ha come principale rischio l’interruzione della terapia stessa (drop-out). 

Per Approfondimenti:

Caviglia, G., Iuliano, C., Perrella, R. (2006). Il disturbo borderline di personalità. Roma: Carocci

Sulla depressione

Vari sono i modelli che forniscono una spiegazione del disturbo depressivo; essi si basano su diverse teorie di riferimento. Nell’ambito dei modelli di matrice psicodinamica è utile ricordare: Sigmund Freud, il quale postula l’esistenza di meccanismi psicologici nella cui funzione patogena è implicata la perdita di un oggetto; Karl Abraham, che ha dato avvio allo studio psicoanalitico della depressione. L’interesse di Melanie Klein è, invece, rivolto agli stadi più precoci della vita psichica e alla funzione prevalente dell’ambivalenza nella psicopatologia. La depressione è, per l’autrice, una situazione che implica la mancanza nel soggetto della possibilità di rifarsi a qualcosa a cui appoggiarsi per ricostruire il proprio mondo interno. Per Silvano Arieti sono le circostanze della vita, così come gli schemi psicologici strutturati del paziente, a determinare la depressione che, nelle sue forme lievi, è oggetto di studio da parte di Jules Bemporad. John Bowlby ipotizza che alla base della patologia depressiva vi sia un modello di attaccamento insicuro. Le teorie cognitive, attraverso il contributo di Beck, forniscono un modello interpretativo della depressione secondo il quale le varie forme di psicopatologia manifestano dei disturbi del pensiero caratterizzati da distorsioni cognitive. Per l’autore un ruolo decisivo, nell’insorgenza della depressione, è giocato dalle autocritiche, dalle esagerazioni per le difficoltà esterne e dalla mancanza di fiducia in se stessi. Il modello biologico, complementare al modello psicodinamico, evidenzia l’esistenza di fenomeni neurofisiologici che accompagnano l’esperienza soggettiva della depressione.

Un valido trattamento per la cura della patologia depressiva è la psicoterapia, il cui scopo principale è quello di rendere la persona più consapevole del proprio problema e, al tempo stesso, più capace di farvi fronte. Il trattamento farmacologico della depressione prevede l’utilizzo degli antidepressivi, una particolare classe di psicofarmaci. Il trattamento psicoterapeutico e quello farmacologico sortiscono migliori effetti se utilizzati in modo combinato. Esistono, inoltre, altre forme di trattamento, come l’elettroshock, che vengono utilizzate quando le altre tipologie di cura non si sono rivelate efficaci.

La depressione post partum è una manifestazione depressiva caratterizzata da una sintomatologia che deve avere uno sviluppo temporale di almeno una settimana, e deve provocare un’effettiva mancanza di funzionalità nella donna. Alcuni studi italiani confermano il ruolo delle stagioni nella patologia depressiva e analizzano l’influenza della latitudine e di fattori socio-culturali sull’andamento dell’umore. I disturbi dell’umore, ed essenzialmente quelli di grave ordine depressivo, si riscontrano frequentemente anche nella popolazione anziana.

La depressione nell’infanzia è un disturbo che si presenta con caratteristiche fenomenologiche tali che rendono difficile diagnosticarla correttamente e stabilire se i sintomi riscontrati sono manifestazioni di disarmonia o di crisi evolutive transitorie. Sebbene gli eventi traumatici della vita possano influenzare l’insorgenza di una patologia depressiva nell’infanzia, la sintomatologia si sviluppa in virtù della modalità con cui il soggetto interpreta tali eventi e del significato che attribuisce alle situazioni negative. L’adolescenza, caratterizzata da una serie di trasformazioni fisiologiche, psicologiche e di ruolo sociale, rappresenta una fase di passaggio durante la quale è possibile ammalarsi di depressione, passando da uno stato di fisiologica depressione a uno di tipo patologico. La qualità della relazione familiare gioca un ruolo chiave nell’esordio, in adolescenza, di disturbi depressivi.

Per Approfondimenti:

Perrella, R. (2006). La depressione: storia, teoria, clinica. Roma: Carocci

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